Diffamazione su Facebook, in questo caso non lo è: la Cassazione ha deciso

Il reato di diffamazione su Facebook può costare veramente caro, ma c’è una sentenza della Cassazione che ribalta tutto. Cosa c’è da sapere. 

Insulti e offese sui social network sono all’ordine del giorno e per questo molti utenti rischiano veramente grosso. Si può essere denunciati, con tanto di conseguenze di natura legale.

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Una nuova ordinanza apre scenari inaspettati sulla diffamazione social – Cassanoweb.it

Ora, però, la Corte di Cassazione ha fatto il punto e grazie ad una sentenza si è aperta una via del tutto inaspettata. In questi casi è bene prestare massima attenzione, la legge parla chiaro.

Cosa dice la legge

Secondo quanto stabilito dalla Cassazione, il reato di diffamazione non si può configurare in presenza di una conversazione sulla chat privata di Facebook. In questo caso, infatti, non ci sarebbero le caratteristiche per la diffusione della diffamazione. Ad aprire nuovi scenari è stata la Corte d’Appello di Milano con la quale è stata rigettata una richiesta di risarcimento. Protagonisti messaggi inoltrati dall’agente ad un destinatario alla volta e quindi anche in forma riservata. In questo caso, però, non sarebbero superati i limiti della continenza, da qui la decisione di non procedere con il reato di diffamazione.

Il giudice ha ribadito che, in questo caso manca, l’elemento oggettivo della diffamazione: si tratta della comunicazione diretta a diversi destinatari. Non l’avrebbe però così pensata il giudice di merito che aveva proposto il ricorso alla Cassazione. L’ordinanza 5701/2024 ha invece rigettato la proposta di ricorso presentata.

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Facebook e la decisione dopo il ricorso presentato da un cittadino: la legge parla chiaro – Cassanoweb.it

E proprio per questo è bene conoscere le motivazioni. “Ci sono state più comunicazioni, ma tutte indirizzate ad un singolo destinatario, l’elemento oggettivo della diffamazione, integrato dalla diffusività della condotta denigratoria, potrebbe sussistere solo nell’ipotesi in cui l’agente […] esprima la volontà o ponga comunque in essere un comportamento tale da provocare, da parte dell’agente medesimo, l’ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario“, si legge.

In conclusione si è quindi deciso di non poter provare all’imputato la volontà e neanche l’accettazione del rischio in relazione ai messaggi trasmessi mediante chat su Facebook, con tanto di ulteriore diffusione. La Corte ha precisato che in mancanza di una prova di divieto di diffusione, da parte del mittente, “si presume che i messaggi inviati tramite social network sui canali di posta privati siano destinati alla diffusione o che, comunque, il mittente abbia consapevolmente accettato il rischio della diffusione da parte del destinatario“, conclude.

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